Ancora oltre i 3000m, da queste parti è facile, nessuna vetta, solo sfiorata, mancata perché il meteo prometteva guasti, ma il gusto
di aver raggiunto un rifugio alla soglia dei 3300m e di aver goduto della vista davvero ravvicinata del ghiacciaio che scende dal Cevedale, è davvero grande.
Le previsioni meteo per il pomeriggio erano pessime, promettevano pioggia certa anche se non battente, quelle per i giorni successivi
erano ancora peggio e dopo tanta incertezza ci siamo decisi, sarebbe stato un peccato finire tra le nuvole e non vedere nulla ma
ancora peggio sarebbe stato perdere l’appuntamento.
Cerchiamo di anticipare al massimo i tempi, trasferimento in jeep già alle 8 del mattino per il rifugio Pizzini, base di partenza
per tutte le mete sopra e intorno la val Cedec, la sorpresa è che per quanti eravamo le jeep erano addirittura due, cosa che ci ha
rincuorato non poco per le sorti dell’escursione.
L’avvicinamento è stato più semplice di quello di due giorni prima, la sterrata della val Cedec è molto più lineare e sale sempre
gradatamente, il Pizzini si trova a quota 2709m, tutte le montagne intorno sono incappucciate da una coltre pesante di nuvole e
anche la cresta che chiude la valle, dove sorge il rifugio Casati che vorremmo raggiungere, è sommersa nella stessa coperta scura,
non avrei scommesso un centesimo sulla riuscita della giornata, ma ormai c’eravamo e valeva la pena continuare, male che sarebbe
andata sarebbe stata una doccia fredda memorabile.
Il tempo di un caffè al rifugio e ci mettiamo in cammino continuando a salire la valle su una ampia traccia a tratti intuibile e
poi su una distesa di ciottoli, ghiaia e rivoli di scolo che scendono dalla sinistra, ciò che rimane della lingua del ghiacciaio
della vedretta del Gran Zebru (questo dettaglio lo abbiamo scoperto solo il pomeriggio di ritorno). Traversiamo un tratto molto
ampio dove l’acqua la fa da padrone, senza un letto, senza argini scende un po' dove vuole, solo nel mezzo della distesa di sassi
la portata è più consistente ma si fa attraversare comunque senza problemi; oltre la valle riprende a salire con diversi risalti,
la traccia si fa più evidente e chiara fino alla base della teleferica che capiremo poi essere la via di rifornimento al Casati. Le
nuvole non mollano la presa, c’è solo una distesa di sassi e ghiaia intorno, poco più avanti una “palude” di scolo senza immissario
e le coste scure delle montagne sempre più vicine, solo sulla nostra destra fa breccia un orizzonte più ampio, uno scorcio pazzesco
della vedretta del Cedec, un ghiacciaio ampio, sporco che restituisce una immagine potente di isolamento, un deserto silenzioso e
inanimato, di un fascino intimo e potente insieme. Nemmeno tre chilometri dal Pizzini, siamo saliti di soli 200 metri, siamo nella
testata dell’ampia valle dove inizia la vera salita verso il Casati. Il vecchio sentiero che saliva molto diretto e ripido è sbarrato
da grossi massi, la traccia è ancora evidente solo nel primo tratto, poi si perde nel ghiaione sovrastante, la linea nuova continua
sulla sinistra tagliando il pendio e sale con ampi tornanti, si avvicina al ghiacciaio del Cedec offrendo scorci notevoli. Molte le
svolte e tanti i traversi che si accorciano via via che saliamo di quota, aumentano i tornanti ma la traccia oltre essere di tanto
in tanto segnalata da cartelli e bandierine rimane sempre molto chiara.
Le nuvole mollano inaspettatamente la presa, seguendo i cavi della teleferica individuiamo la posizione in cresta dove sorge il Casati,
un mare di roccia scura ancora da salire col sentiero impossibile da individuare dal basso, fila per alcuni tratti sull’orlo dello
sfasciume che scende ripido, siamo saliti molto e la vista sul fondo valle ancora coperta da nebbia rada è pazzesca, davvero sembra di essere sopra un deserto.
Intorno ad uno sperone si sale protetti, gradoni di legno ed una catena a lato assicurano da incaute scivolate, nessuna esposizione
forse un po' più di pendenza su terreno meno stabile; quando il sentiero riprende a traversare con poca pendenza passiamo accanto a dei
fili spinati aggrovigliati e arrugginiti, altri segni che arrivano dal passato, dalla grande guerra. Il filo di cresta è vicino, si
intuiscono i tralicci di arrivo della teleferica, e poi la sagoma del rifugio Guasti, poco più alto del Casati, non ho capito bene se
ancora attivo. Una palina con un cartello in lontananza ci dice che stiamo atterrando in cresta, la prima neve, dovrebbe essere ghiaccio
ma lasciamo stare, compare tra le rocce, poi la distesa del ghiacciaio che scende dal Cevedale ed il rifugio (+2,10 ore). Eccoci arrivati,
di certo un ambiente inusuale per noi e ci mettiamo tempo ad abituarci, raggiungiamo la terrazza del rifugio e ci sediamo sulle panche
appoggiate all’edificio, è la prima volta che ci troviamo così vicini ad un ghiacciaio e al di la di cercare subito la vetta del Cevedale ci
sono troppi dettagli da raccogliere, è tutto troppo.
Il plateau davanti al rifugio è in pessime condizioni, ghiaccio sporco, qua e la affiora la roccia, rivoli più o meno consistenti scorrono
ovunque, davvero una tristezza assistere questa agonia; più in alto va meglio, lo spessore aumenta con l’altezza, dove il versante è più
ripido dei crepacci hanno sfaldato il fronte. Le linee di salita sono comunque morbide e sembra davvero un facile ghiacciaio da salire, non si
capiscono bene le pendenze sotto le vette a tratti ancora avvolte dalle nubi ma non dovrebbero essere proibitive, la letteratura descrive questa
cima come facile da salire e molto utilizzata dalle scuole di alpinismo.
A testimonianza di questo una piccola cordata che sta scendendo nel mezzo del plateau, con molta facilità e disinvoltura, nonostante non siano
lontani sono dei piccoli puntini che si perdono nel mare bianco di ghiaccio; sulla terrazza del rifugio una decina di alpinisti si stanno
preparando per partire, non possiamo non invidiarli. A proposito che stanno partendo ora, ma il meteo dava condizioni pessime il pomeriggio e
loro stavano partendo per la vetta? Forse erano cambiate nel corso della mattinata o forse no perché avevamo in programma di salire la vicina
cima Solda, una quarantina di minuti di sola andata, e ci abbiamo rinunciato per via del vento e delle nuvole estremamente mutevoli e che
sembravano volersi chiudere velocemente. Questione di abitudini e di conoscenza, di attitudine con queste montagne e altezze, sicuramente non
abbiamo saputo leggere i segnali e per non rientrare a valle sotto la pioggia abbiamo preferito seguire la linea più prudente.
Le due cime del Cevedale, monte Cevedale a destra e cima Cevedale a sinistra, distanti circa cinquecento metri l’una dall’altra e differenti solo
di dodici metri a favore del monte, si coprono e si scoprono continuamente, le nuvole ne mutano i profili in continuazione, sono più alte rispetto
al rifugio di soli cinquecento metri, un paio i chilometri in cui sembrano non esserci troppe difficoltà. Belle da fare invidia, da desiderare di
aver potuto osare, ovvio con una guida, ma l’idea non ci ha nemmeno sfiorato, segno che ormai i tempi sono passati.
Mi avvicino alla parte opposta del terrazzo, cima Solda sarebbe davvero facile da salire, li a due passi e completamente scoperta dal ghiaccio,
una linea di salita semplice, la lingua della vedretta del Cevedale che gli scivola sotto supera il piano e prende a scendere dove diventa la
vedretta Lunga, oltre la dorsale rocciosa sul fronte opposto la vista si aprirebbe sulla vedretta del Solda… ora che non sono più li rimpiango di
non essere salito in vetta, avrebbe aperto orizzonti fino al Gran Zebru e oltre.
Difficile ripartire, lo facciamo perché sono dieci minuti che le nuvole continuano ad addensarsi ed il vento ha rinforzato facendosi anche freddo,
sulla sella ultimo sguardo al rifugio e al Cevedale confidando che possa essere solo un arrivederci.
Come iniziamo a scendere per la tracia di salita l’intera testata della valle è sgombra da nuvole, anzi ci sono, alte ma sfilacciate, con ampi spazi
di cielo azzurro, qualcuna più formata a cumulo ma lasciano vedere i profili delle montagne che in salita ci erano stati nascosti, sopra una fila di
varie brunite guglie che da noi farebbero la felicità di chiunque, si alza una piramide enorme, grigia nella sua dolomia purissima, appare bianca
nella sua lucentezza, non me lo aspettavo, come non dovesse o potesse esserci; è stato un fulmine, un amore a prima vista, una montagna perfetta,
bellissima, elegante, ipnotizzava. Ripreso dalla sorpresa e dallo stupore era chiaro che fosse il Gran Zebru, il famoso Gran Zebru, ma chi se lo
aspettava che fosse così bella? E poi prima non c’era, chi pensava che fosse così vicina? Da qual momento ci terrà compagina fin quasi al rifugio
dei Forni, da quel momento non l’ho persa più di vista, l’ho fotografata da tutte le posizioni. Davvero una delle montagne più belle che ho visto,
sarebbe interessante andarlo a sbirciare dal versante di Solda.
La discesa per la stessa via, ovviamente, con più luce che non in salita, con orizzonti più vasti che non in salita, con scorci che in salita non
avevamo potuto godere, quello che sembrava un deserto desolato è di una bellezza insolita e senza fine, quella fiumana sparsa tra le rocce che
avevamo attraversato in salita non è altro che il torrente che nasce dalla bocca della vedretta del Gran Zebru, vederlo da lì in mezzo, fotografarlo
dal mezzo di quella fiumana non aveva prezzo.
Siamo di rientro al Pizzini (+2 ore), molto affollato ora, da gruppi di giovani soprattutto stravaccati sui prati, ci riposiamo sotto le campate del
rifugio, la vedretta del monte Pasquale che scende di fronte fin quasi a valle, una lingua di ghiaccio molto tormentata, le previsioni meteo si sono
sbagliate, c’è un sole caldissimo, bello tutto.
Per scendere a valle prendiamo il sentiero 528, scorre a mezza costa parallelo alla sterrata, ci si distacca gradatamente, ed è una traccia
meravigliosa per le viste che offre, che cambiano lungo il tragitto, cartoline una più bella dell’altra, sempre o quasi in compagnia del Gran Zebru
prima, del Cevedale e poi del ghiacciaio dei Forni, si incontra subito la deviazione sulla destra per il passo Zebru che porterebbe a scavallare
nella Val Zebru e a raggiungere il rifugio V° Alpini, percorso che abbiamo memorizzato perché abbiamo capito che il prossimo anno saremo da queste
parti di nuovo. Più avanti un placido ruscello che scorre tra le praterie è la più classica cartolina delle Alpi, il Gran Zebru che lo domina secondo
me lo usa per farsi ancora più bello.
Prima di prendere in discesa si incontra una caserma della grande guerra, meglio le rovine, ulteriore testimonianza di quel periodo tragico (tempo).
Dalle rovine si prende a scendere con più decisione, ci si abbassa nella valle e si entra nei boschi di abeti quando il rifugio dei Forni è già a vista.
Al parcheggio (+1,30 ore) siamo veloci nel rimetterci in condizioni presentabili, è pomeriggio inoltrato e vorremmo andare a mangiare qualcosa al
rifugio Stella Alpina, un chilometro più giù del rifugio dei Forni. E’ stato un trionfo, pizzoccheri strabilianti come da tradizione valtellinese
ed un lardo così dolce e morbido che non dimenticherò per tutta la vita. Birra e gazzosa per fugare la sete e recuperare liquidi e quando stiamo
per chiudere iniziano a scendere le prime gocce, le previsioni meteo erano solo in ritardo, da lì a poco un bel temporale che abbiamo sentito dalla
doccia ha chiuso la giornata. Perfetto!